mercoledì 27 febbraio 2019

We the animals

L'istinto di sopravvivenza fa superare anche i passaggi più duri, ma le cicatrici restano dentro e spesso rielaborano il nostro percorso di crescita in modi diversi e imprevedibili malgrado le esperienze comuni.
We the animals è un film tratto dal romanzo semi-autobiografico di Justin Torres, che racconta la storia di tre fratelli che alle fine degli anni '80 vivono nelle campagne dello stato di New York completamente trascurati dai giovani genitori. I due, veniamo a sapere, si sono incontrati da adolescenti alle superiori a Brooklyn; la madre è rimasta incinta e poi, forse per motivi economici, si sono ritirati in una esistenza marginale ai limiti della sopravvivenza tra liti e lavori precari. Il padre è il tipico macho carico di testosterone: i figli lo ammirano e tendono a seguirlo.
All'inizio i ragazzini sono indistinguibili l'uno dall'altro: tre fratelli affiatati che passano le giornate da teppisti rurali, tra furti di cibo nei negozi di alimentari e negli orti, giochi pericolosi e visite a un giovane vicino di casa spesso intento a guardare film porno. Ben presto il piccolo Jonah manifesta una sensibilità diversa: osserva in silenzio ciò che gli accade accade intorno: i genitori nell'intimità, il bosco, l'incanto della natura; disegna di nascosto tutto quello che incamera, trasfigurandolo in immagini selvagge e poetiche. Oltre all'arte, l'arrivo della sessualità lo allontanerà dai suoi fratelli e il suo percorso verso la virilità si rivelerà completamente diverso. Zak Mulligan adotta uno stile impressionistico per trasmettere la vita interiore di Jonah, girando dialoghi stringati con la macchina da presa che si muove spesso a livello del suo sguardo. We the  animals è un  film che parla per immagini: crudo e lirico allo stesso tempo. Miglior film d'esordio all'Indipendent Spirit Awards, premio per il cinema indipendente a basso budget.
Se IMDb dice giusto, presto nelle sale, ma non ci giurerei.


lunedì 18 febbraio 2019

Le quote musicali

L'idiozia è dilagante: dopo le polemiche demenziali di Sanremo, è arrivata anche la proposta di legge sulla quota italiana obbligatoria di canzoni alle radio. Già ora io ascolto poco e niente le radio nazionali perché ti ammazzano di musica di merda e pubblicità; infatti, a quanto pare, le cinque principali emittenti già trasmettono il 50% di musica fatta in Italia, per cui come sempre ai piani alti sono anche male informati.
E se anche non fosse? Con una norma del genere si potrebbe ascoltare più musica alternativa e di qualità o dosi ancora più massicce di letame sonoro? Già solo il titolo della proposta di legge sa di ventennio: “Disposizioni in materia di programmazione radiofonica della produzione musicale italiana”. Chi ha memoria o ha studiato un po' di storia sa che è successo: si comincia così, poi arriva l'obbligo di utilizzare il termine brioscia invece di brioche, insalata tricolore invece che insalata russa e via dicendo; in un cerchio che si stringe lentamente prima verso l'omologazione e poi in territori abbastanza pericolosi da MinCulPop. E chi non dovesse rispettare le quote? A chi sostiene che in Francia esiste questa forma di tutela, ribatto che l'Italia ahimè non è la Francia; anche se bisogna ammettere che a livello musicale non c'è gara (a nostro vantaggio).

Si è dichiarato favorevole una mente illuminata come Claudio Cecchetto ("Se davvero aiuta i nostri talenti, perché non provarci un po'?") 
Prepariamoci quindi ad una stagione gloriosa con i nuovi Sandy Marton (anche se era di Zagabria l'abbiamo adottato con entusiasmo), Sabrina Salerno, Via Verdi e DJ Francesco, per citare alcuni dei talenti lanciati dall'autore di Gioca jouer.

lunedì 11 febbraio 2019

The Slits - I heard it to the grapevine (Marvin Gaye cover)





















Cover VS Original è una vecchia rubrica della teiera che ogni tanto ricompare.
Fin da quando ho iniziato a suonare non ho mai amato le cover fotocopia o peggio versione karaoke; mi piacciono solo quando si riesce a dare nuova linfa alle canzoni: non sempre basta stravolgerle completamente. I heard it to the grapevine delle Slits è un ottimo esempio di quello che intendo: classico della Motown del 1966 (cantato da Gladys Knight, the Miracles, Credence Clearwater Revival e nella versione più famosa da Marvin Gaye) venne incisa dal gruppo inglese delle Slits nel 1979 come lato B del loro primo singolo. Invece delle solite versioni dei gruppi punk del periodo, abbiamo qui un approccio dub, con un basso pompante e percussioni tribali, in una reinterpretazione completamente nuova ed originale.
Si formarono nel 1976 e fu il primo gruppo punk e post-punk tutto al femminile guidato da Ariane Daniela Forster (Ari Up) vocalist di origine tedesca, morta nel 2010. Furono tra i primi gruppi insieme a PIL e Clash a contaminare il punk con le sonorità dub e si fecero conoscere proprio come supporter dei Clash nel White Riot Tour del 1977. In seguito collaborarono anche con The Pop Group. Comprai il vinile del loro album di debutto, Cut. E' ancora un pugno in faccia a partire dalla copertina, con le tre ragazze che posano insolenti a seno nudo tutte sporche di fango. Un disco che col tempo è diventato un classico post-punk. Raggiunse la trentesima posizione in classifica nel Regno Unito. Ironiche e al tempo stesso riot grrrls incazzate ante litteram: «buy magazines» (“comprano riviste”), «worry about spots» (“si preoccupano dei brufoli”), «don’t create» (“non creano”), «don’t rebel» (“non si ribellano”).  «Who invented the typical girl?» (“Chi ha inventato la ragazza standard?”) così cantano in Typical Girls. Kurt Cobain era un loro grande fan.
All'epoca in Italia avevamo le Kandeggina Gang con Jo Squillo... fate un po' voi!

sabato 2 febbraio 2019

Appunti musicali: Will Driving West, TARM, London Undergorund, Rustin Man

Partito più di dieci anni fa come blog musicale, ultimamente la teiera volante parla poco di musica. L'album dei ricordi ormai è stato ampiamente trattato e riguardo le novità, non so: dipenderà dalla predisposizione dei periodi, però capita sempre più spesso di passare settimane e a volte mesi senza trovare qualcosa di stimolante. Poi tutto ad un tratto, come in questo inizio d'anno, non so da dove iniziare ad ascoltare quello che mi ha colpito. 

Will Driving West. Quintetto canadese di Montréal con una bella alchimia tra due donne e tre uomini. A fine 2018 sono usciti con il quarto album intitolato Silence. Un assaggio live.




Tre Allegri Ragazzi Morti
Gradito ritorno con un disco molto easy dal titolo bellissimo: Sindacato dei sogni. Continuo comunque a preferire Primitivi del futuro e i lavori meno recenti. C’era un ragazzo che come me non assomigliava a nessuno, è un brano che riporta alla luce quel periodo di furiosa creatività musicale che attraversò l'Italia, in particolare con la new wave bolognese e con il movimento punk che esplose a Pordenone con il nome di The Great Complotto. La canzone è un tributo a quel momento irripetibile. Meravigliosi i contrappunti di sassofono, strumento che ho cominciato ad amare ai tempi di James White e Lounge Lizards (sempre presente nei nostri Reverse).



London Underground
Sono un trio toscano. Four è formato da dodici pezzi esplosivi di acid rock, psichedelia e rock progressivo (cito dal loro sito) a metà tra Atomic Rooster, early Pink Floyd e Gong. In più, un favoloso hammond stile Brian Auger. Molto derivativi; persi in una bolla temporale, però secondo me spaccano. Mi piacerebbe sentirli dal vivo.




Rustin Man
A distanza di parecchi anni dal meraviglioso progetto con Beth Gibbon, ritorna Paul Webb, l'ex bassista dei Talk Talk, con un nuovo album (Drift Code) uscito ieri.

Massimo Volume
Il nuotatore è il titolo del nuovo album del gruppo bolognese.

venerdì 1 febbraio 2019

La Favorita

Aspettative mantenute per uno dei registi che ho più apprezzato negli ultimi anni. Con questo film Lanthimos supera le convenzioni di genere spiazzando per inventiva e originalità, pur mantenendo una connessione stilistica con i migliori in assoluto: la messa in scena e le inquadrature del Peter Greenaway di  Compton House; l'illuminazione naturale che si rifà a Kubrick e al suo capolavoro Barry Lyndon.
Ci si appassiona con gli intrighi di corte e le bassezze morali per accaparrarsi i favori della regina; non di meno per il sarcasmo e i dialoghi taglienti. Il palazzo reale si rivela un ambiente perfetto per esaltare le doti del regista greco nel saper raccontare l'allegoria del potere, la condizione femminile e la perfidia della natura umana. Emma Stone, Rachel Weisz e Olivia Colman sono una meglio dell'altra. 

Per chi non la conosce, andate a recuperare Dogtooth del 2010 (la sua opera migliore) film geniale e concettualmente disturbante premiato a Cannes nella sezione Un Certain Regard e all'epoca tristemente ignorato dalla distribuzione italiana.