Secondo anno delle superiori. Avevo già ascoltato qualcosa di David Bowie, ma il giorno in cui andai a casa di Capo (questo era il suo soprannome di cui ignoro le origini), feci una vera full immersion e lì sentii per la prima volta questo splendido disco che contiene capolavori come Life on Mars. Conobbi Capo il giorno in cui mio cugino, detto il Man (più grande di me di un paio d'anni), mi invitò a casa dell'amico dove stava andando a suonare, sapendo che anch'io strimpellavo. Io ero perplesso, perché era risaputo che entrambi erano un po' sciroccati, però ebbe il sopravvento la curiosità di vedere che cosa riuscivano a combinare. Ricordo che in soggiorno c'era un pianoforte che Capo sapeva suonare da autodidatta, un buonissimo impianto stereo e tanti dischi tra cui tutti gli album, vari singoli, bootleg e spartiti di Bowie. Capo per tutto il pomeriggio suonò il pianoforte, ci mostrò e ci fece ascoltare diversi dischi e non fu difficile cogliere nei suoi atteggiamenti e nella sua enfasi un'insana e maniacale passione per il Duca Bianco. In seguito, incontrandolo altre volte e parlandoci, mi resi conto che la realtà che Capo viveva e percepiva era quasi sempre filtrata attraverso la musica e i testi di Bowie; con lui era molto difficile e complicato conversare di altri argomenti. Avevo la sensazione che vivesse una condizione di fragilità preoccupante. Nei mesi successivi non ci feci molto caso, ma non si fece più vedere in giro e un giorno chiesi al Man se ne sapeva qualcosa. Mi raccontò che era stato ricoverato in preda a crisi depressive e sentendosi un po' in colpa, mi spiegò che forse anche lui aveva contribuito a questa situazione. Con la sua tipica flemma (opposta alla costante febbrile eccitazione dell'amico), mi raccontò che Capo, non si sa in base a quali principi etici, aveva sempre sostenuto fermamente che una persona nella propria vita, una volta ottenuto un lavoro, doveva mantenerlo per sempre, altrimenti era da considerarsi un fallito. Come il Man appunto, additato di continuo come esempio negativo poiché aveva già cambiato più volte posto di lavoro. Ormai non si frequentavano quasi più, ma la morale che Capo si era imposto gli si ritorse contro, perché il Man al primo lavoro perso dell'ex-amico lo aspettò al varco e incontrandolo per strada gli urlò: "Conto uno!". Quando anche il secondo lavoro andò in fumo, fu la volta di "Conto due", parole che il Man gridava con regolarità implacabile ogni volta che si incrociavano, nel bar o lungo la strada. L'epilogo si ebbe quando il Man, consapevole di colpire nel segno, un giorno al termine di una discussione gli gridò: "Tanto si sa che ormai la musica di Bowie la fa Brian Eno al computer!" Capo, sicuramente non solo per questi motivi, andò fuori di testa. I suoi genitori si presentarono addirittura a casa del Man a fare una scenata, attribuendo a lui la colpa per la depressione del figlio e intimandogli di non tormentarlo più con le sue perfide frasi. Rividi Capo in circolazione dopo cinque-sei anni, visibilmente sedato ed ingrassato; si sapeva che era stato in un istituto di cura. Mi salutò e scambiammo qualche parola stentata: due ragazzi, quasi adulti in imbarazzo reciproco. Provai pena per questo abruzzese fuori di testa, incompreso dai genitori molto anziani.
Il Man un giorno mi fece leggere alcuni suoi scritti stralunati (alla Syd Barrett): erano poesie e testi di canzoni dai titoli improbabili tipo Canto d'addio al cosmico Daniele. Uno mi colpì, perché il finale era divertente: narrava in versi un episodio vero riguardante questo suo amico sprovveduto che per un paio di anni, quando in paese arrivava l'autoscontro gestito da un omone obeso, si faceva assumere come lavorante, sperando di guadagnare qualche soldo. Finiva così: "...ma alla fine della settimana di lavoro il grasso padrone non gli dava dei soldi bensì gli dava del pazzo".
Il Man un giorno mi fece leggere alcuni suoi scritti stralunati (alla Syd Barrett): erano poesie e testi di canzoni dai titoli improbabili tipo Canto d'addio al cosmico Daniele. Uno mi colpì, perché il finale era divertente: narrava in versi un episodio vero riguardante questo suo amico sprovveduto che per un paio di anni, quando in paese arrivava l'autoscontro gestito da un omone obeso, si faceva assumere come lavorante, sperando di guadagnare qualche soldo. Finiva così: "...ma alla fine della settimana di lavoro il grasso padrone non gli dava dei soldi bensì gli dava del pazzo".
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