Fin da bambino ho avuto un debole per le case abbandonate e per quelle in costruzione. La cosa fondamentale era che fossero grandi, in modo da soddisfare a sufficienza il gusto dell'esplorazione. Una stupenda opportunità ci si offrì quando in paese iniziò la costruzione del nuovo ospedale. Nel nostro gruppo avevamo principalmente tre giochi-passatempi: l'atletica leggera, le battaglie con le cerbottane e le spade e gli edifici disabitati. Mio nonno faceva il falegname, perciò attrezzi e utensili erano a portata di mano. Io e i miei cugini costruivamo spade e spadoni di legno che poi utilizzavamo in giochi di ruolo all'interno degli edifici. L'ospedale di domenica era il massimo, perché le due squadre avversarie, composte in genere da 4-5 ragazzi si potevano disperdere tra corridoi, sale, cortili, piani e preparare agguati e duelli. Col passare degli anni gli orizzonti si allargarono e cominciammo ad esplorare le colline tosco-romagnole armati di chitarre, sacchi a pelo e cerbottane, la nostra nuova mania. I materiali erano semplicissimi: tubi rigidi che raccoglievamo nel cortile di un elettricista e poi tagliavamo e fogli di carta di quaderni vecchi arrotolati a cono, a volte con la punta rinforzata da scotch, che chiamavamo piruletti . Ho scoperto in rete che questa specie di dardi inoffensivi hanno un nome particolare in ogni zona d'Italia: “pirole” a Verona, “cartoccetti” a Roma, “pirulini” a Firenze.
Un estate, di ritorno da un viaggio in autostop, scoprimmo un paese abbandonato del nostro Appennino:
Castiglioncello. Era il classico borgo fantasma in cima ad un cocuzzolo, un tempo abitato da non più di cento anime, ormai abbandonato da anni; ci si arrivava solo a piedi salendo lungo una mulattiera per circa mezz'ora ed era circondato da una natura incontaminata con tanto di cascatella. Per noi era un luogo magico e segreto e quando vi entrammo per la prima volta a fine estate, provai una sensazione particolare: un villaggio intero, tutto a nostra disposizione. C'era la chiesa con una ventina di case e, distanziato qualche centinaio di metri, perfino un piccolo cimitero con il cancello d'ingresso cigolante, le mura e poche lapidi ancora visibili. Era il mio Spoon River, dove mi soffermavo ad immaginare la vita di quei poveri cristi che erano lì sotterrati. La prima volta che decidemmo di dormirci scegliemmo la casa più ospitale; all'interno c'era un camino ancora funzionante, cosa molto utile quando decidemmo di tornarci armati di cerbottane a fine autunno per passarci la notte. Ricordo che il giorno prima era caduta la neve e quando arrivammo, poco prima del tramonto, c'era una densa foschia che avvolgeva tutto il paesaggio. Mentre salivamo in silenzio con il respiro affannoso e la neve che scricchiolava sotto i piedi, ci accorgemmo che con l'altitudine la nebbia si stava diradando e giunti sullo sperone che dominava la vallata, le stelle e una luna piena comparvero sopra di noi, mentre al di sotto un velo lattiginoso copriva tutta la vallata, come un mare spettrale. Appena riposti sacchi a pelo, zaini e acceso il fuoco, mio cugino tirò fuori il registratore e fece partire la
Toccata e fuga in RE minore di Bach, per creare un po' d'atmosfera a lume di candela, mentre io leggevo i canti di Maldoror. Lo so, possono sembrare scontate suggestioni post-adolescenziali, ma ho un ricordo intenso e vero di quel posto, di quelle uscite perché non si trattava di pose, ci divertivamo veramente in modo pazzesco, uscivamo dal branco e dalle convenzioni e per questo eravamo segnati a dito, ma nulla ci tratteneva o condizionava. Una delle cose che più mi divertiva in quelle uscite erano le jam session che io e Francesco improvvisavamo seduti davanti al fuoco in quei luoghi isolati e silenziosi: io accompagnavo e lui era la chitarra solista, anche di una certa bravura. Perdevamo il senso del tempo. Una volta a lui cadde il plettro, ma non si fermò a raccoglierlo, continuò a suonare ancora a lungo rapito dalla musica. Alla fine, stupefatto, si accorse di avere due dita insanguinate che gli avevano schizzato la chitarra.
Quella mattina uscimmo dai sacchi a pelo parecchio infreddoliti, ma l'entusiasmo per la giornata che ci attendeva superava ogni disagio. La neve ghiacciata durante la notte, brillava sotto un cielo terso; tutto intorno l'incendio autunnale dei boschi: la nostra battaglia che stava per cominciare. Tutti contro tutti sparpagliati tra le case del villaggio e la chiesa mezza diroccata come punto di riferimento. "
Ne rimarrà uno solo!" Ma non aveva così un'importanza. Fui eliminato: centrato in fronte da un piruletto con la punta indurita dal freddo. Non mi sono mai sentito così libero e felice.
Col passare degli anni la zona cominciò ad essere frequentata e conosciuta; specie nei weekend comparvero i primi gitanti della domenica, stile pic-nic in collina. Noi selvaggi ci spostammo in cerca di luoghi sempre più isolati e trovammo in un'altra vallata una casa-mulino abbandonata, fino a quando le scorribande si diradarono. A diciannove anni, con un po' di soldi guadagnati dalla vendemmia, partii per un viaggio che mi portò a vagabondare, non più per le montagne dell'Appennino, ma in giro per l'Europa (Bruxelles, Londra e Amsterdam dove trovai lavoro un ristorante) e infine in Marocco con un grande amico che ora non c'è più. Quando tornai a casa, sei mesi dopo, quasi tutto era cambiato: erano iniziati gli anni '80. Da allora ne è passato di tempo; una volta tornato, imparai a modo mio la difficile arte del compromesso, costruendomi una rete di rapporti soddisfacenti e una parvenza di integrazione.
LA CHIESA DIROCCATA
IL BORGO
Ideale per gli agguati